19 Maggio 2014
I vigneti nel ventre di Napoli, viaggio tra i produttori dentro la città
TweetUva sopra i Quartieri Spagnoli e sotto la Certosa di San Martino, uva sulla collina di Posillipo o ad Agnano ai bordi degli Astroni, il vulcano spento 3700 anni fa oggi parco naturale, uva persino ai Camaldoli tra quegli orribili palazzoni di cemento protagonisti della speculazione edilizia degli anni ’50 e ’60 immortalata dal film di Francesco Rosi <Le mani sulla città>. Insomma, per la prima volta in quattro secoli è la campagna a determinare la nuova moda a Napoli, la metropoli più antica d’Italia: curare i vigneti e fare vino. Il Rinascimento italiano della viticoltura fa sentire i suoi effetti anche nel cuore della città, in mezzo al traffico, dietro i palazzi, dove davvero nessuno potrebbe immaginare la presenza della vite. Ancora una volta Partenope disvela un volto sconosciuto e affascinante perché non stiamo parlando di agricoltura residuale di qualche anziano contadino che ha resistito ai compratori, ma di autentici imprenditori, non la vecchia pergola ma vigneti a spalliera impostati da agronomi e seguiti da enologi. Insomma, un ritorno moderno al passato antico, quando su questa terra nera e fertile frullata dai vulcani era facile fare agricoltura e tra il Vesuvio e i Campi Flegrei c’erano centinaia di ville patrizie circondate dai vigneti.
Una inversione di tendenza che avvicina ancora di più, se possibile, Napoli a Parigi. Il nostro giro in città inizia a corso Vittorio Emanuele 245, sì proprio qui dove non c’è più neanche un filo d’erba: un cancello anonimo e “‘O Sole Bio”, un negozio in franchising di prodotti biologici dell’Agro Vesuviano, sono lo specchio di Alice che porta alla proprietà di Peppe Morra, quattro ettari sorvegliati dalla Certosa di San Martino a ridosso dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa che il gallerista acquistò in tempi non sospetti. Era infatti il 1987 quando decise di investire un po’ di soldi in quel terreno dove tra olivi, fichi, agrumi, ortaggi, frutta, “ciucciarielli”, spuntano i vigneti a piedefranco di aglianico, piedirosso, falanghina e catalenesca, il tutto tra i cento e i duecento metri di altezza.
Da qui il colpo d’occhio abbraccia il Vesuvio, la Penisola Sorrentina, Capri e tutta la città. La vigna risale sicuramente al 1500, leggere tracce di pergolato ricordano la viticoltura a due piani del passato, vigneti a spalliera ben esposti e ventilati su terreno sabbioso vulcanico producono un frutto competitivo goduto da trenta soci dell’associazione “Amici della Vigna di San Martino” che ogni anno organizzano la bicchierata più trendy di Napoli in occasione della vendemmia. Uno storia e uno schema simile a quello delle vigne a Parigi: nel 1929 il pittore Francisque Poulbot con alcuni amici scrittori ed artisti salvarono dalla speculazione immobiliare un bel giardino e vi impiantarono il vigneto ora conosciuto come Clos Montmartre, anche qui le vendemmie sono l’occasione per festa annuale ed il ricavo delle vendite va ad opere di beneficenza.
L’avventura di Peppe Morra è l’ennesima traccia della profonda anima francofila di questa città dove tutto, dai dolci da passeggio alla tradizione dei monsiù, dalla passione per lo champagne ai nomi dei piatti e delle ricette, sottolinea il filo diretto tra Napoli e Parigi, le due uniche culture metropolitane europee i cui caratteri si sono formati molto prima della rivoluzione industriale: ce lo ricordano i loro centri storici, i più grandi del Vecchio Continente. E’ l’eredità più preziosa di una aristocrazia gaudente e indolente che invece di restare a lavorare nella terra si è trasferita in città per costruire palazzi e vivere a Corte. Forse la questione meridionale è tutta qui, nella trasformazione della rendita fondiaria in champagne.
La Vigna di San Martino è sicuramente un fenomeno di costume, per ora non ha nulla di commerciale, ma la viticoltura a Napoli è diventata anche una impresa seria, senza alcuna concessone al folklore: nel territorio comunale lavorano infatti alcuni dei migliori interpreti della doc Campi Flegrei caratterizzata dai due vitigni classici più amati dai partenopei: la falanghina e il piedirosso qui chiamato anche Pèr ‘e Palummo, cioé piede di colombo, per la colorazione rossa, simile appunto alla zampetta di un colombo, che assumono i pedicelli quando l’uva inizia a maturare. Entrambi i vitigni sono assolutamente tipici. Il bianco prende il nome dall’uso della falanga introdotto dai greci quando ci si rese conto che la vite ad alberello non rendeva al meglio con l’umidità della Campania Felix dal clima mite anziché arido e afoso. Di qui l’idea di sollevare la pianta dal terreno. Recenti studi scientifici dell’assessorato regionale all’Agricoltura hanno dimostrato comunque l’assoluta diversità della falanghina dei Campi Flegrei da quella Beneventana che sono state per questo motivo riclassificate. In entrambi i casi il vino si presenta ricco di note minerali e sostenuto da una buona spalla di freschezza, siamo dentro il palato dei napoletani che comunemente preferiscono un bicchiere beverino, non eccessivamente morbido, per meglio abbinarlo alla tradizione gastronomica fatta di piatti semplici e barocchi ma comunque sempre dai sapori decisi.
Lasciamo dunque San Martino e trasferiamoci sulla salita più bella del mondo, quella di Posillipo dove, proprio in cima alla collina, di fronte a Capri, c’è il famoso ristorante Rosiello gestito da Salvatore Varriale. Qui l’enologo Michele De Simone è intervenuto imponendo i nuovi impianti a spalliera, potatura verde, bassa resa per ettaro, raccolta manuale su quello che è un piccolo museo ampelografico all’aperto: falanghina dei Campi Flegrei e del Beneventano, uva Rosa, Sangenella, catalanesca (in dialetto posillipino catranesca), piedirosso. Ed ecco, dopo la vinificazione che avviene nell’azienda I Borboni di Carlo Numeroso a Lusciano, i famosi tre vini di Rosiello: Santo Strato Per‚ ‘e Palummo Campi Flegrei doc fermentato in legno, il rosato e la Falanghina igt, in tutto qualche migliaio di bottiglie vendute esclusivamente ai clienti del ristorante. Per ora parliamo di appena 10.000 bottiglie, ma le potenzialità per crescere ci sono tutte nei quattro ettari di vigneto da poco rimessi in ordine. Anche se val la pena sottolineare che non siamo in presenza di una ossessione monoculturale in stile langaiolo perché proprio come nella vigna di San Martino, anche qui prevale la cultura dell’orto: oltre all’uva Salvatore produce infatti olio dalla cultivar Itrana, verdure, ortaggi, frutta mentre la sorella Carmela provvede personalmente a fare le confetture di fichi e agrumi. La cambusa baciata dal sole a picco sul mare di uno dei ristoranti più famosi della città, un presidio della cucina partenopea sempre sospesa tra l’influenza marinara delle cotture leggere, discrete e quella fantasiosa e opulenta, di necessità si fece virtù, vegetariana.
Non lontano, parliamo di qualche centinaio di metri sull’altro lato della collina di Posillipo, un castello incantato costruito nell’Ottocento svela ancora altri quattro ettari di vigne e orti in città, stavolta con vista sui Campi Flegrei: è il Castello di Enzo De Vita a via Manzoni dove si organizzano banchetti e cerimonie. Proprio sotto il fabbricato, in campagna, il papà Filippo, un ragazzo che ha superato gli 80 anni, continua a curare pomodori, frutta, verdure, ortaggi e uva falanghina e piedirosso vinificate in proprio in una grotta antica scavata nel tufo seguendo le indicazioni dell’enologo Santolo Bonaiuto. I due vini si chiamano Torre Ranieri, il rosso fa un leggero passaggio in legno, 25.000 bottiglie della doc Campi Flegrei con i due vitigni tipici di Napoli.
Da Posillipo agli Astroni il salto è breve, siamo appena dopo Fuorigrotta, ad Agnano precisamente. Diciamo subito che è davvero molto facile trovare le vigne di Varchetta: basta andare sul bordo del cratere degli Astroni. Anche qui, piantate sul terreno sabbioso nero, ci sono le vigne di falanghina e piedirosso, più in basso la nuova cantina pensata per l’accoglienza e quattro ettari assediati dalle costruzioni. In questo caso parliamo di un’azienda dalla tradizione molto antica, è nata nel 1891, che produce circa 300.000 bottiglie, ma Antonio e i suoi figli hanno ripensato l’intera linea produttiva puntando progressivamente sulla qualità e la riorganizzazione di questi vigneti affidata all’enologo Gerardo Vernazzaro è sicuramente un segnale della svolta. Varchetta, come numerose aziende che circondano il perimetro urbano napoletano, fa parte della grande tradizione di vinificatori che hanno servito la città negli ultimi due secoli: Scala a Portici, Saviano a Ottaviano, De Falco a San Sebastiano al Vesuvio, Caputo a Teverola, la famiglia Martusciello a Quarto per citare i più famosi. Costruite le aziende alle porte di Napoli, compravano le uve ovunque, persino in Abruzzo, per soddisfare la sete della più popolosa città italiana. Poi la crisi con il calo dei consumi e il ripensamento produttivo con il passaggio dalla quantità alla qualità, l’acquisto dei vigneti, gli investimenti in tecnologia. Chi non ha fatto così è sparito o gioca un ruolo residuale. Di questi, Varchetta è l’unico che riesiede dentro il territorio del comune di Napoli.
Da un anno è affiancato da una nuova azienda, Moccia: 3,5 ettari di terreno e 15.000 bottiglie pensate da Maurizio De Simone di Falanghina e Piedirosso. Si tratta di una azienda agricola fondata nel 1960 da Gennaro Moccia proprio sul bordo del bosco degli Astroni, dove inizia l’area naturale protetta. Nel 2003 il figlio Raffaele ha iniziato ad etichettare e ad imbottigliare il vino ottenuto dalle proprie uve che in passato erano semplicemente vendute a terzi. Gli impianti nuovi, la buona esposizione a mezzogiorno, ancora una volta il suolo e la pendenza garantiscono al prodotto una tipicità unica. Oltre a Moccia registriamo anche una new entry: Masseria del Borro il cui enologo, Santolo Bonaiuto, è impegnato con falanghina e piedirosso.
Dobbiamo andare nel comune di Marano, ma parliamo più semplicemente dell’altro lato della collina dei Camaldoli perché la suddivisione è solo amministrativa, per trovare altre due realtà molto interessanti. Questa zona era la più agricola della città e i napoletani, sino all’immediato Dopoguerra, amavano andare a fare qui le scampagnate fuoriporta, allora la Pasquetta sui Camaldoli era un classico. Poi l’alluvione di palazzi da cui emergono solo piccole realtà. La prima è Pietraspaccata, non lontano dall’eremo di Santa Maria Pietraspaccata, fondata da Giuseppe Spinosa nel 1995 con sette ettari di proprietà e 450.000 bottiglie prodotte. Anche in questo caso le bottiglie di punta sono la Falanghina Terre Tufacee e il Piedirosso anche se merita attenzione anche lo Spumante, sempre da Falanghina, ottenuto con il metodo charmat. Questa azienda è l’unica che produce anche bottiglie di Lacryma Christi, il bianco da caprettone e il rosso da piedirosso e aglianico.
Non lontano l’ultima nata, Le Vigne di Partenophe, l’azienda fondata nel 2002 da Cristiano Apice e Aniello Quaranta che ha dieci ettari di proprietà e una produzione di 50.000 bottiglie di Falanghina e Piedirosso e dunque con buoni margini di crescita. Anche in questo caso l’enologo è Maurizio De Simone.
Così anche la città dello scambio riscopre la sua identità nel bicchiere, un patrimonio sino a qualche anno fa in via di estinzione ma che adesso, grazie al lavoro dei produttori dell’Irpinia, del Sannio e delle altre zone interne, si ripropone all’attenzione del mercato con tutte le sue potenzialità e arricchita dal fascino della suggestione di luoghi mitici. Dove da sempre la grotta di Polifemo e gli scogli delle Sirene sono vicini, talmente vicini da confondersi. Perché qui il Paradiso non è mai lontano dall’Inferno.
(Da Cucina e vini, settembre 2004)
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