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22 Aprile 2014

Quando Amelio chiamò Andy Warhol

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Quando Amelio chiamò Andy Warhol

"Il Bibliotecario" - il focus di Antonio De Robbio sul blog di NapolinVespa.

Quando Lucio Amelio commissionò ad Andy Warhol un lavoro su e per Napoli, all’artista sembrò abbastanza ovvio immortalare il Vesuvio. Con il suo solito modo di fare, Warhol dichiarò che il Vesuvio era una star : perciò la sua scelta era caduta su di esso. Una star? Certo, almeno da dopo l’eruzione del 1631! Prima di tale evento, la veduta di Napoli era sempre stata dal mare, oppure a volo d’uccello, oppure riguardante particolari della marina. A nessuno importava, dopo la Tavola Strozzi, di immortalare Napoli in un modo diverso:  il leggero paesaggio, la mitezza dei tratti, l’aura da Arcadia in terra facevano propendere per la veduta tipica, quella che dal mare posava lo sguardo sulla città intera. 

Poi, terribile, l’eruzione del 1631: Napoli si riappropriò, in un solo istante, del proprio Istinto di Morte. Quella eruzione, che aveva cambiato persino la morfologia dei luoghi, divenne motivo per partorire il topos dei topos, qui a Napoli: la veduta della città con dietro il Vesuvio.  A Muntagna divenne e simbolo di morte e simbolo di protezione, posta come è lì, alle spalle della metropoli. Quindi, quando Amelio incaricò Warhol di dipingere qualcosa per un progettato Museo di Arte Moderna, al newyorkese non venne alcun dubbio. 

Io credo di aver persino individuato il punto esatto che ispirò Warhol: un punto imprecisato tra la zona di S. Antonio, in Torre del Greco, e la Via del Monte. Naturalmente non ho le prove di quello che dico ma, se si guarda con attenzione il Vesuvio warholiano, ci si accorge che solo in parte ha la solita forma. Esso esplode, si dimena, guizza, colora di colori improbabili tutto l’universo.  E’ pittoricamente il contrario del dipinto che Warhol, sempre su commissione di Lucio Amelio, aveva fatto dopo il terremoto. FATE PRESTO, si chiamava e riproduceva la prima pagina de Il Mattino di quel giorno funesto. Intonsa, bianco & nero, lapalissiana, l’opera si accostava ai lavori d’inizio carriera di Warhol.  

Sì, perché Andy Warhol ha spesso avuto un rapporto privilegiato con Napoli. Se Roma era per lui l’industria del cinema ( produsse e girò film, con l’aiuto di Ponti) e Milano l’industria della moda e del franchising warholiano,  Napoli rappresentava la creatività e basta.  Fin dal lontano 1973 quando Mario Franco apre a Napoli Cinema Altro – centro di informazione e documentazione cinematografica (AW Viaggio in Italia, Mazzotta, 1996) Warhol appare in città come una presenza inimitabile e già molti collezionisti privati posseggono le sue opere.  Nel 1974 Cinema Altro proietta My hustler, Lonesome Cowboys e Blue Movie. Quest’ultimo viene interrotto dalla polizia per oscenità.  Ma la data fondamentale che segnò il sodalizio artistico fra l’artista americano e la città partenopea fu il 1976, invitato dalla carismatica figura  Lucio Amelio.  Amelio intendeva   commissionargli una serie di opere da realizzare per la propria galleria in Piazza dei Martiri, Warhol si fermò nella città partenopea per tre giorni eseguendo anche ritratti che come soggetto ritraevano lo stesso gallerista.  L’anno successivo (1977) il gallerista commissionò la serie di Hammer and Sickle ( le Falci & Martello che imperversavano sui muri di tutte le città italiane ), che tuttavia non fu mai portata a termine per l’elevato costo che la realizzazione di tale progetto implicava.  Le occasioni di incontro tra Warhol e Napoli non furono quindi mai sprecate ed il Vesuvius che è a Capodimonte testimonia della bellezza del posto, del fuoco che ha nei visceri e della creatività del pittore.  

Ora, al PAN, la mostra sulle opere di Warhol è davvero un momento topico per capire, passo dopo passo, cosa ha rappresentato per tanti collezionisti napoletani questo inventore/distruttore del moderno. E, usciti dalla mostra, forse ci conviene guadare il magnifico – spero futuro! – grossissimo fuoco d’artificio, il Vesuvio, che sta lì ad ammonirci. 
Antonio De Robbio 

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