Perché mai, a Napoli, i contratti di locazione decorrono dal 4 del mese?
Qualche giorno fa, in un importante studio di avvocati, ci siamo trovati davanti a una domanda che sembrava semplice ma che ha messo tutti in difficoltà: perché mai, a Napoli, i contratti di locazione decorrono dal 4 del mese?
Un amico di Verona, abituato alle scadenze canoniche del primo giorno, non riusciva a capacitarsi di questa particolarità tutta partenopea e un po’ ci prendeva in giro dicendo che, forse, si trattava della nostra tipica scaramanzia... Eppure, nessuno tra colleghi e praticanti ha saputo dargli una risposta precisa.
Fu così che, tornato a casa, ne ho parlato con mio padre che mi ha fatto: “Prova a cercare qualcosa su ’O quatto ‘e maggio” e scavando tra memorie e tradizioni, è emersa la spiegazione: il 4 maggio era il giorno fissato per i traslochi e la scadenza degli affitti a Napoli, una consuetudine che affonda le radici nel XVII secolo e che ha lasciato un segno indelebile nel linguaggio e nella cultura della città.
Secoli fa, il giorno dei traslochi era il 10 agosto (San Lorenzo), ma il caldo e le proteste dei facchini spinsero a cambiare data.
Nel 1587, il viceré Juan de Zúñiga spostò la scadenza al 1° maggio, festa dei santi Filippo e Giacomo ma i napoletani, devoti ai santi, non gradirono.
Nel 1611, il viceré Pedro Fernández de Castro fissò definitivamente il 4 maggio come data ufficiale per traslochi e sfratti.
Da quel giorno, il pagamento della “mesata” (il canone di locazione) decorreva dal 4 maggio, insieme alle altre scadenze del 4 gennaio e del 4 settembre.
Il 4 maggio era il giorno in cui famiglie intere traslocavano: entro le ore 18.00 bisognava lasciare la vecchia casa e sistemarsi nella nuova. L’espressione “’O quatto ‘e maggio” è diventata sinonimo di confusione, cambiamento improvviso e caos cittadino.
Qualche giorno fa, con la scusa di un contratto locativo, Napoli ci ha scaraventato indietro nel tempo ricordandoci che anche se il tempo passa, lei è sempre viva …da oltre 2500 anni.
Nel frattempo, in un vecchio libro di brevi racconti acquistato tanti anni fa a San Biagio dei librai…
Mi svegliai quella mattina con il sole che filtrava tra le persiane, portando con sé un’aria di agitazione che già si sentiva nelle strade. Era il 4 maggio, e a Napoli non serviva calendario per ricordarlo: bastava affacciarsi al balcone.
Carretti carichi di sedie, materassi e credenze si accalcavano lungo i vicoli, i facchini urlavano ordini e bestemmie, e le donne, con i bambini stretti al grembo, cercavano di non perdere nulla tra il frastuono. Io stesso avevo legato con lo spago le poche cose che possedevo: un baule, qualche libro, un tavolo che aveva visto più pasti che anni.
Il padrone di casa mi aveva ricordato la scadenza con tono secco: “Entro le diciotto devi essere fuori.” E così, con il cuore che batteva forte, caricai tutto sul carro di un facchino che sembrava conoscere ogni pietra della città.
Attraversando Spaccanapoli, mi sembrava di partecipare a una processione laica: un fiume di vite intere che si spostavano nello stesso giorno, come se Napoli fosse un grande palcoscenico e noi attori costretti a recitare la parte del trasloco. Le voci si intrecciavano, i bambini piangevano, i cani abbaiavano, e il rumore dei ferri e delle ruote sul selciato creava una musica dissonante che solo qui poteva diventare tradizione.
Arrivai alla nuova casa poco prima del tramonto. Le stanze erano vuote, fredde, ma bastò poggiare il mio baule e aprire la finestra per sentire che, nonostante la confusione, ero di nuovo parte di questa città viva, caotica, irripetibile.
E mentre guardavo il cielo tingersi di rosso, pensai che sì, “fa nu quatto ’e maggio” non era solo un modo di dire: era un’esperienza che ti entrava nelle ossa, un rito collettivo che trasformava il disordine in identità.